Le immagini di Roma bloccata dai tassisti con il governo che alla fine cede a un ricatto apparentemente invincibile è un topos della seconda Repubblica. In quanto tale, certamente il primo istinto di Sisifo (per il significato della citazione rimando all’articolo di Giuliano da Empoli) è stato lo scoramento da giornata della marmotta, il famoso film con Bill Murray intrappolato in un loop spazio-temporale che lo costringe a rivivere sempre la stessa giornata.
Eppure, in questo mondo nuovo che a Volta vorremmo mappare, ci sono due differenze sostanziali con il passato. Primo: il tema dei tassisti non è più una questione economica, risolvibile come ogni questione economica con un compromesso tra interessi divergenti, ma un simbolo che in quanto tale è importante non per le questioni di merito, ma per quello che evoca. Ciò è stato immediatamente chiaro alla Sindaca Raggi che ha cavalcato la protesta incurante della sua città in ginocchio. È stato chiaro alla sinistra di Fassina, in piazza in mezzo a loro fisicamente oltre che con un tweet di solidarietà. Ma era ancora più chiaro agli stessi tassisti, che sono scesi in piazza infatti con un pretesto davvero marginale, protestando per la proroga a una discussione in corso. Hanno poi cessato la protesta alla promessa che la discussione sarebbe continuata. Non c’è modo di rimanere nell’ambito della logica quando si maneggiano i simboli. O meglio, la logica non riguarda il merito, ma tutto il resto.
Dal lato della barricata rappresentato dai tassisti, il simbolo accomuna perfettamente le diverse parole d’ordine della politica reazionaria (definizione più precisa e calzante del generico “populista”, leggete il bel saggio di Mark Lilla, The Shipwrecked Mind) che pare così di moda e vincente. Basta mercato, ma anche basta innovazione, basta stranieri, basta confini aperti, basta progetti di sviluppo, basta tutto: torniamo al piccolo mondo antico dove non c’era l’olio di palma nella Nutella (e quindi probabilmente non c’era la Nutella, avventura industriale e sempre moderna) e dove si rispettavano tutti i diritti definiti nella età dell’oro della giustizia sociale, che vanno incardinati in un eterno immutabile. Questa sommariamente descritta non è una posizione negoziabile, è la linea politica coerente e inscalfibile dei movimenti demagogici, in particolare quelli nati nelle democrazie occidentali.
È importante sottolineare però che il lato simbolico è altrettanto forte dall’altra parte della barricata. Qui i tassisti sono diventati il simbolo della prepotenza del passato, delle rendite monopolistiche irragionevoli che bloccano sia il mercato che la giustizia (con i tassisti il liberismo è sia di destra che di sinistra), simbolo di chi si oppone al futuro finendo anche per essere irrazionale, perché la realtà è per forza destinata ad evolversi. Come ha scritto qualcuno, appena arriveranno le auto senza i guidatore i tassisti faranno la fine degli spazzacamino.
In verità, queste auto senza guidatore potrebbero anche non arrivare mai: non lo sappiamo. Uber ha perso 5 miliardi negli scorsi due anni, magari si scopre alla fine che il modello più efficiente è quello dei tassisti. In fondo, la protesta va avanti vittoriosa da talmente tanti anni, che solo una fede irrazionale nel futuro può muovere certezze di segno diverso.
Se la prima differenza riguarda la protesta dei tassisti, ormai elevata a simbolo, la seconda differenza riguarda i suoi oppositori. Una parte della barricata liberalizzatrice, in cui io mi sono sempre ritrovato, pensa che risolvere la questione in maniera pragmatica sia possibile. Una forza politica maggioritaria potrebbe forzare un accordo che preveda adeguate compensazioni per alcune legittime aspettative dei tassisti, legate soprattutto al costo delle licenze, garantendo allo stesso tempo una maggiore liberalizzazione del trasporto su auto. Questa parte della barricata oggi deve fare i conti col fatto che dopo il 4 dicembre in Italia la frammentazione del sistema politico e il bicameralismo paritario continueranno, diciamo per sempre, a rendere agevole per gruppi organizzati e molto prepotenti come i tassisti la cattura di porzioni politiche sufficienti a garantir loro protezione e tutela.
Detta in un’altra maniera, la costruzione di un movimento politico forte, tendenzialmente maggioritario, con l’obiettivo di promuovere scelte di progresso piuttosto che di conservazione, non passa più per una riforma istituzionale. E’ bene dunque che Sisifo si attrezzi a percorrere una strada diversa, basata su una alleanza sociale da costruire con la politica e le politiche, in un assetto di fondo che rimane simile a quello della seconda Repubblica. A ben guardare, non è detto che sia una strada più lunga.
A questo proposito, c’è un elemento chiave di questa vicenda simbolica dei tassisti che è un punto di forza del partito-algoritmo ma anche la nostra chance di capire che questo avversario è meno sfuggevole di quanto appaia: una forza in carne, ossa e interessi. Infatti, appare ormai chiaro che caratteristica dei movimenti demagogici contemporanei è la difesa di interessi potenti e prepotenti, tendenzialmente antichi e timorosi dei cambiamenti. In maniera analoga a precedenti reazionari nella storia, i demagoghi odierni cercano forza da un immaginario “popolo” tradito, si ammantano di parole di cambiamento – da ottenere tramite l’eliminazione di un capro espiatorio – ed esaltano lo status quo ex ante, quello del piccolo mondo antico immaginario, fatto di ideali e di interessi.
Nella carne della società, una strategia di cambiamento progressista deve far fronte contro la alleanza strutturale tra il partito dell’algoritmo descritto da Da Empoli, le strutture antiche – dei tassisti, degli ambulanti, dei caldarrostai, e – negli USA – delle componenti industriali più tradizionali – che si sommano ai gruppi contrari ai temi ambientali, delle libertà personali, della cittadinanza universale libertaria.
Nella costruzione di una alleanza sociale – fatta di politica e politiche – che si opponga a questo fronte, da mesi nei giornali dominano la scena interpretazioni che io ritengo molto fuorvianti. La prima sostiene che il momento di difficoltà del PD e delle altre forze democratiche nei paesi occidentali è dovuta alla disuguaglianza e al distacco crescente tra establishment e popolo. La cosa paradossale di questa analisi è che il “tradimento” dell’establishment nei confronti del popolo non è affatto una analisi, ma la bieca propaganda degli stessi populisti richiamata sopra che, per insipienza o per una strana sindrome di Stoccolma, una porzione rilevante della intellettualità occidentale ha iniziato a premettere alle sue considerazioni.
Confondere la politica con la propaganda mi fu insegnato da ragazzo essere l’errore più esiziale che conduce in una terra di nessuno, senza bussola e senza argomenti. Per dirne una: nel Regno Unito, patria della prima storica vittoria dei demagoghi delle fake news, la disuguaglianza è costantemente diminuita negli ultimi dieci anni. Con questo, si badi, non sto sostenendo che sia “giusta” la distribuzione del reddito nel Regno Unito, penso infatti il contrario. Quello che però è chiaro è che il fenomeno populista, e del “mondo nuovo” in cui siamo entrati nel drammatico 2016, ha un rapporto al massimo tangenziale e contemporaneo con temi di squilibrata distribuzione economica media.
Abbandonando questa falsa analisi ci si rende subito conto che la novità del 2016 non è stato il voto di protesta della ex classe operaia, protesta che è iniziata nella seconda metà degli anni ’90 (l’ultima forte onda di deindustrializzazione occidentale avvenne all’inizio degli anni ’90): quella ex classe operaia fu abbandonata vent’anni fa dalla precedente generazione di centrosinistra.
La novità elettorale è stato il voto reazionario e populista di gran parte dell’elettorato conservatore e di parte di quello progressista, nonostante non siano certamente né razzisti, né xenofobi e generalmente inseriti in un contesto dove i fatti e il merito sicuramente contano. La sorpresa è stata l’inversione di significato del “turarsi il naso”: nel dopoguerra significava votare dei moderati per quanto corrotti, oggi degli apparentemente sinceri e puri, per quanto incapaci e trucidi.
Indizi per comprendere la spinta che ha generato questo distacco dalle forze più tradizionali e moderate possono trarsi da alcuni dati davvero comuni attraverso le democrazie occidentali. Innanzitutto sulla disuguaglianza. La disuguaglianza media non è aumentata quasi da nessuna parte, ma è aumentata dappertutto, in maniera drammatica, la disuguaglianza generazionale. Questo non è un dato dalle conseguenze politiche ovvie.
Un ventenne di oggi è più povero di un ventenne di ieri. Il trentenne di ieri, oggi è un ventenne che sta meglio rispetto a dieci anni fa, ma è più povero di un trentenne di ieri (che oggi ha quarant’anni, eccetera, fino alla generazione nata a metà degli anni ‘60). Questo dato è responsabile di molti editoriali accigliati che dicono “eh questi giovani di oggi però non protestano la loro difficile condizione”, editoriali che io trovo prima di tutto vili, perché con la penna di generazioni ben più agiate, ci si permette di mettere sulle spalle dei giovani – della loro presunta dabbenaggine e ignavia – persino la responsabilità ultima della loro condizione di povertà relativa.
Questi editoriali non capiscono che questo tipo di disuguaglianza è intrinsecamente difficile da tradurre in azione di governo perché fa a pugni con la normale e fisiologica necessità che la politica ha di consenso di breve periodo.
Infatti, i trentenni di oggi non vivono contemporaneamente a quelli di ieri! Non sorgono visibili e attuali conflitti di interesse, come quello tra i tassisti e Uber, se non nei grafici degli economisti. Infatti, la principale soluzione a questo dramma sociale propugnata da una parte iperliberista e apolitica, composta da quegli stessi economisti, è quella di un trasferimento di risorse dai vecchi ai giovani. Questo tipo di operazione – la riduzione dei diritti acquisiti – è qualche gradino di volte più difficile della liberalizzazione dei taxi, anche perché in ultima istanza gli anzianissimi della Corte Costituzionale hanno più volte bocciato le timide iniziative che pure erano avvenute in questo senso.
Fosse solo per un fatto di sistematica correlazione, il tema del ventennale peggioramento della condizione giovanile è nei fatti uno dei responsabili chiave dello scoramento sociale e del distacco tra società politica e società civile, come si diceva una volta. Di conseguenza, la creazione di opportunità, a cominciare da opportunità di reddito, di abitazione e di studio, è la via principale da cui cominciare per valutare le diverse politiche che vengono proposte o ideate.
Non si tratta di un generico “pari opportunità”, al contrario, deve trattarsi di una bussola specifica e dedicata nei confronti di quegli strati della popolazione caratterizzati da una età meno anziana, in cui i fenomeni di distacco sono stati i più drammatici. Davanti a ogni misura, a ogni settore, va verificato quali misure aprono opportunità (e l’elusione fiscale internazionale, per dirne, non lo fa mai) e cosa invece le chiude.
Si tratta di un lavoro non banale perché la redistribuzione standard non funziona, anzi può esacerbare il problema. In chiosa, va sottolineato che se ben congegnate politiche del genere contribuiscono anche a una diffusa e più robusta crescita economica, attivando dunque un doppio circolo virtuoso.
Ma nella costruzione di una bussola per valutare e scegliere le politiche e i programmi nel mondo nuovo c’è un secondo dato che accomuna tutti i paesi occidentali investiti dai movimenti reazionari. Si tratta della divaricazione impressionante nel voto, mai registrata prima – e vale per Brexit e Trump, ma anche per Raggi – tra diversi gradi di istruzione. L’interpretazione implicita che ne viene data, orrenda e sbagliata, è quella che attribuisce alle persone con meno titoli di studio una minore capacità di “fare la cosa giusta” e una maggiore incapacità di difendersi dalla propaganda a suon di bufale. Questa lettura è tipica di chi le persone senza titoli di studio non le ha mai conosciute, e dunque vive e ragiona in bolle assolutamente simmetriche a quelle che conducono alcuni a mettere a rischio i propri figli non vaccinandoli. E’ stato ampiamente dimostrato che il livello di formazione non è una qualità che rende in grado le persone di capire meglio il futuro, o di compiere scelte in media più sagge.
Questo dato dice un’altra cosa, ossia che è in atto un profondo divorzio, amaro e sfiduciato, tra i gruppi e le professioni intellettuali e il resto della società. Questo divorzio dovrebbe interrogare innanzitutto i primi, ma riguarda tutta la società, perché si riflette non solo sul voto (che alla fine rimane e rimarrà anche un problema di tecnica: se Hillary Clinton avesse fatto più campagna negli stati chiave avrebbe probabilmente vinto) ma su molte altre dimensioni economiche e sociali. Di conseguenza, una politica progressista e democratica che abbia a cuore la crescita sostenibile e inclusiva, deve farsi guidare dalla bussola della disuguaglianza intergenerazionale e da quella della costruzione di capitale sociale, come precondizione al rafforzamento della fiducia tra gruppi di diverse professioni, stili di vita, biografie.
In assenza di politiche del genere, la segmentazione in bolle e camere dell’eco tipica di Internet rischia di tracimare nella società in carne e ossa con conseguenze che difficilmente possono immaginarsi sostenibili per la sua coesione e per la giustizia sostanziale. Inoltre, non si tratta, io credo, di una questione solo di giustizia e equità – anche se questo per me basterebbe. La mia impressione – entrando nel campo della speculazione – è che in un prossimo futuro i paesi si divideranno tra quelli che ce la faranno a rimanere coesi, e quelli invece che sprofonderanno in una polarizzazione sempre più estrema che potrà a profondissime oscillazioni (pensate che capogiro passare da Obama a Trump).
Le oscillazioni produrranno necessariamente instabilità e insicurezza. Invece, i paesi che saranno in grado di evolversi riducendo la polarizzazione, conterranno la frammentazione, e dunque anche l’incertezza. Come è noto la crescita economica si basa su aspettative chiare e stabili, e poi dalla crescita economica e dal lavoro dipendono in larga parte l’irrobustimento della democrazia, la crescita culturale e la diffusione dei diritti umani.
A ben guardare, le mappe del nuovo mondo sembrano restituire per chi si oppone ai reazionari alcuni compiti nuovi con parole anche antiche: giustizia sociale intergenerazionale, costruzione di legami e di fiducia, piazze piuttosto che muri, crescita e progetto invece che stasi e timore.
Volerci provare e riuscire, che sono due temi diversi da quello che ho toccato qui, necessitano di uno schema di gioco nuovo, e soprattutto strumenti innovativi non recuperati dall’armamentario né degli anni ’70, né degli anni ’90.