Se l’Italia non ha prodotto finora ghetti urbani paragonabili alle banlieue francesi o belghe, il merito è di un modello di immigrazione diffusa che distribuisce i nuovi arrivati sul territorio anziché concentrarli nelle grandi città. Lo dimostra Roberto Volpi in una ricerca che pubblichiamo (a questo link), nella quale analizza la distribuzione della popolazione immigrate sul territorio italiano.
“Se l’impatto di flussi migratori – scrive Volpi – che per una decina d’anni hanno proceduto a un saldo medio attivo di oltre 300 mila nuovi residenti annui non ha rotto gli argini né è riuscito a creare una consistente riserva di opinione pubblica disponibile ad assimilare i peggiori pregiudizi negativi verso gli immigrati, ciò si deve in buona parte all’irriducibile varietà italiana. La quale ha fatto sì che gli stranieri approdati in Italia non si addensassero pesantemente attorno a tappe e mete definite, prefissate e al tempo stesso limitate, ma si disperdessero piuttosto tra le tante, le mille mete possibili”.
Contrariamente a quanto accade in altri paesi europei, in Italia non c’è differenza nella concentrazione di immigrati in città grandi, medie e piccole. “Sono 45 le città italiane con più di 100 mila abitanti – scrive ancora Volpi: rappresentano il 23,4 per cento della popolazione italiana e ospitano il 32,1 per cento degli stranieri residenti in Italia. Deve far riflettere che nelle grandi città con quasi un quarto della popolazione italiana non ci sia neppure un terzo degli immigrati residenti. Ancor più se si pensa che l’anima della graduatoria delle città con la più alta percentuale di stranieri sono, più che non le grandi città, quelle di 100-200 mila abitanti. Al primo posto troviamo infatti Brescia col 18,6% di stranieri residenti, al terzo posto Prato (17,9%). Dopo Milano (18,6%), al secondo posto, per trovare una città di almeno 300 mila abitanti occorre scendere fino all’11° posizione, occupata da Torino (15,4%), seguita da Firenze (15,2%) e Bologna (15%). Tra la 4° e la 10° posizione troviamo Piacenza, Reggio-Emilia, Vicenza, Bergamo, Padova, Parma e Modena”.
Questa frammentazione si conferma anche analizzando nei quartieri a più alta densità di immigrazione delle grandi città: Roma, Milano e Torino. “A Roma, scive Volpi, il massimo di stranieri si registra nel centro storico ed è costituito da occidentali dei paesi ricchi, mentre in tutti gli altri municipi la percentuale di stranieri resta molto al di sotto del 20%. A Milano la percentuale di stranieri supera il 20% nella zona 2 (28,1%) e nella zona 9 (23,2%), mentre a Torino la percentuale del 20% è superata nella circoscrizione 6 (23,2%) e nella circoscrizione 7 (21,4%). A Milano con la sola, peraltro blanda, eccezione degli stranieri filippini della zona 2, nessuna nazionalità vanta un numero di residenti che supera il 5% della popolazione delle zone. A Torino è mediamente più forte la provenienza africana, che nella circoscrizione 6 arriva nel suo complesso all’8-9% della popolazione, ma dove la componente principale, quella che viene dal Marocco, è pari al 5% degli abitanti della zona. In sostanza, l’analisi delle nazionalità degli stranieri nelle aree a maggior rischio delle grandi città italiane a più alta concentrazione di stranieri conferma che il carattere diffusivo dell’immigrazione in Italia spinge anche nel senso di differenziare le nazionalità degli stranieri internamente a queste aree, evitando quell’effetto enclave, e di estraniazione dal contesto urbano, che cela i maggiori rischi di pericolosità dell’immigrazione nelle aree urbane”.
Per diventare un vero e proprio modello, però, l’immigrazione diffusa non può essere lasciata alla spontaneità del tessuto produttivo e dell’humus socio-culturale. Nella parte finale della ricerca, Volpi propone policies ad hoc – dall’incentivazione del microcredito per “gli stranieri residenti, specie asiatici, che mostrano una particolare vocazione a mettersi in proprio” a percorsi professionali ad hoc per i badanti.
“Si tratta – conclude Volpi – di possibilità di intervento, e domani magari di programmi e di azioni specifiche, che si innestano, e vanno a consolidare, se messe in atto, il fondamentale carattere dell’immigrazione in Italia: il suo essere diffusa quasi senza eccezioni nelle città e nei comuni italiani, e almeno un poco più portata, per ciò stesso, a esserne, se non proprio a sentirsene, parte”.
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