C’è un brutto film di qualche anno fa in cui Nicholas Cage cerca disperatamente di andar via da un villaggio infame del Midwest e non ci riesce. Ogni volta che sembra che sia riuscito a metterselo alle spalle, succede qualcosa che lo riporta tra le quattro strade impolverate di Red Rock. La politica italiana a Red Rock c’è rimasta per vent’anni. Sempre impantanata negli stessi dibattiti e nelle stesse trincee, dalle riforme istituzionali all’articolo 18. Ora, si può pensare quello che si vuole degli ultimi due anni, ma è difficile negare che siamo finalmente usciti dal villaggio.
Basta questo per dire che siamo sull’orlo di una nuova egemonia culturale, l’ambizione che Claudio Cerasa ha fin troppo generosamente attribuito a Volta in occasione dell’avvio delle nostre attività?
A mio avviso no. Ma ciò non significa che abbia ragione Ernesto Galli della Loggia quando ribatte a Cerasa che la classe dirigente attuale non produrrà mai un’egemonia culturale perché “manca l’idea”, vale a dire la cornice d’insieme nella quale inquadrare le singole mosse per costruire un percorso leggibile e coerente. A me sembra che sia vero esattamente il contrario. Certo, non esistono più le super-pillole teoriche di un tempo. Quei manualetti delle istruzioni che contenevano tutte le domande e tutte le risposte. Però, rispetto al ventennio perduto della Seconda Repubblica, una discontinuità forte, sul piano dell’”idea”, c’è. E consiste nella semplice volontà di puntare fino in fondo su un modello italiano, culturale e produttivo, che ha una sua specificità e va riformato anche in profondità, ma per rafforzarlo, non per omologarlo ad altri. In questo sta la differenza con gli ultimi vent’anni: quando Berlusconi tagliava i fondi alla cultura e cancellava la storia dell’arte dalle scuole superiori e la sinistra, o i tecnici, pensavano che il legno storto italiano andasse raddrizzato per farlo aderire ad un’ideale di normalità importato dall’estero.
Non dico che tutte le scelte compiute negli ultimi due anni siano coerenti con questo obiettivo, ma una linea riconoscibile esiste. E lo dimostrano sia il grado di polarizzazione del dibattito pubblico italiano tra chi ci crede e chi no, sia i toni con i quali la stampa di tutta Europa ha commentato il secondo anniversario del governo in carica. Un po’ dappertutto, i progressisti sospesi tra l’immobilismo di Hollande e il ritorno al passato di Corbyn si chiedono se l’Italia non stia per caso producendo un’alternativa sostenibile, capace di rimettere in movimento la società senza soccombere sotto i colpi dei movimenti populisti ed euroscettici.
Ora è chiaro che la risposta a questa domanda non c’è ancora. Però il fatto stesso che venga posta significa che esiste lo spazio per una scommessa. In una fase di disorientamento su scala continentale, nella quale i vecchi centri di iniziativa politica e culturale hanno cessato di funzionare, ci sono i margini per immaginare che un contributo decisivo alla reinvenzione dell’Europa venga dall’Italia? Non solo in termini di governo, ma anche di stimoli, di idee e di iniziative tangibili?
Volta nasce per accompagnare questa scommessa. Si tratta di affrontare un’emergenza culturale, più che di affermare una qualsiasi presunta egemonia. In un paese più abituato alle inaugurazioni che alle manutenzioni, solo il tempo dirà se ne saremo stati capaci. Di una cosa, però, siamo certi. Anche in questo campo, i vecchi occhiali servono a poco. Chiunque pensi che l’impatto di un movimento si misuri ancora in termini di manifesti e di riviste, di intellettuali organici e di manualetti di pret-à penser è vittima di un’illusione ottica.
L’importanza del lavoro culturale non è diminuita. Al contrario si è, per molti versi accresciuta, ma segue oggi percorsi completamente diversi, che bisogna avere il coraggio di esplorare senza pregiudizi. Altrimenti il rischio è sempre quello di andare incontro al destino del bruco che chiama fine del mondo ciò che il resto del mondo chiama farfalla.