Al di là della retorica, la Cultura occupa oggi l’ultimo posto tra le priorità̀ dell’Europa, come dimostra lo 0,0001% del bilancio che l’Unione Europea riserva tuttora a questo settore.

All’indomani delle elezioni europee, e della formazione del nuovo governo dell’Unione, si cerca di capire come la Cultura possa cessare di essere l’ultima ruota del carro per diventare finalmente uno dei motori dell’Europa del futuro.

Il 17 settembre 2019, si è svolto l’incontro “La Cultura in Europa: motore o fanalino di coda?”, organizzato da Volta in collaborazione con Associazione Civita.

I due ospiti di questo evento, introdotto da Giuliano da Empoli e moderato da Eric Jozsef (corrispondente di Libération), erano Robert Manchin (presidente di Culture Action Europe) e Francesco Rutelli (presidente di Anica).

INTRODUZIONE

La Cultura è il fanalino di coda in Europa, e questo fatto è legato al modo stesso in cui si è costruita l’Europa. In effetti, la costruzione europea è stata fatta da europeisti convinti (Robert Schuman, Jean Monnet, Alcide De Gasperi), che sono partiti dal presupposto che la Cultura e l’identità erano ciò che aveva diviso gli Europei. Convinti che questi due elementi erano i nemici dell’Europa, hanno deciso di lasciare da parte la Cultura e l’identità e di far partire l’Europa da cose concrete: il carbone, l’acciaio, etc.

Queste azioni “concrete” sono il frutto di un disegno visionario che è il seguente: “Noi uniremo i popoli quasi di nascosto, senza dirglielo e senza la Cultura, ma associandoli sempre di più sulle cose concrete e tessendo una rete cosi fitta di interessi in comune che poi alla fine questo processo avrà lo sbuco dell’unione europea naturale”.

Da questo punto di vista il piano ha funzionato più che bene: gli eurocrati sono deli eroi, che hanno costruito, sulla base di tante noiosissime piccole cose, una tessitura di interessi e di elementi in comune, fino ad arrivare all’euro.

In questo percorso, tutto ciò che poteva comportare un elemento identitario o culturale è stato volontariamente messo da parte, perché la cultura e l’identità sono considerate soprattutto come elementi divisivi. Per esempio, prendendo in considerazione le monete nazionali, sul dollaro sono rappresentati una serie di riferimenti culturali ed identitari forti: la faccia del Presidente degli Stati-Uniti, una città americana, la scritta “in God we trust”, etc. Invece, sulle banconote dell’euro sono rappresentati ponti e altri luoghi non reali, che hanno sostituito volti e monumenti identitari delle monete nazionali.

Fino a qualche tempo fa, la costruzione europea è proceduta con successo. Pero’, oggi siamo arrivati ad un punto di crisi e di rimessa in discussione dell’integrazione europea. E stiamo capendo che questa strategia dei padri fondatori pone un problema, perché in realtà il sentimento è più forte di un’idea.
Il modo in cui è stata costruita l’Unione europea è andato a sbattere contro il muro. Adesso si pone il tema di capire se, nella fase successiva, noi abbiamo la forza e la capacità di ripartire anche da temi identitari e culturali, oppure non ce l’abbiamo.

DOMANDE

Il titolo della discussione pone diverse domande; fanalino di coda rispetto a cosa? Agli investimenti? Alle spese dello Stato? Alle preoccupazioni degli attori politici e dei Governi?

I nazionalisti sono stati fermati alle le ultime elezioni europee, tuttavia il nazionalismo non è stato sconfitto. In effetti, la forza dei nazionalisti risiede nel fatto che loro hanno una narrazione vecchia ma identificabile, riconoscibile e rassicurante per tanti cittadini. Invece, nella costruzione europea, dall’inizio c’è stata una mancanza di narrazione e di incarnazione. La famosa frase “se dovessi rincominciare, ricomincerei dalla Cultura” non è mai stata pronunciata da Jean Monnet. Pero’, se la ripetiamo sempre, magari significa qualcosa: vuol dire che tante persone pensano che bisogna ripartire dalla Cultura?

Molti stati europei hanno investito nella Cultura. Ad esempio, in Francia, l’investimento nella Cultura è stato molto importante con la figura di Malraux. L’Italia anche ha investito molto, in particolare sul patrimonio. Perché non c’è questa stessa spinta oggi in Europa?

Per quanto riguarda la nuova Commissione Europea, è la prima volta che non c’è un commissario dedicato alla Cultura e non c’è la volontà di metterlo in avanti. Pero’, allo stesso tempo, l’Europa è uno spazio che considera la Cultura come un’eccezione: la Cultura non è un bene come gli altri. Perché è sparita questa visione culturale molto forte che c’era in Europa, nei singoli paesi? Cosa è successo?

Come far ripartire questo motore? Quale rapporto c’è tra pubblico e privato? Abbiamo bisogno di investimenti o di regolamentazione?

Ci sono sempre meno film stranieri in Italia, e sempre meno film italiani all’estero. Prima, c’erano più co-produzioni europee, con attori di nazionalità diverse. Quale può essere il contributo dell’audiovisivo nella costruzione dell’identità europea? Quale ruolo può giocare l’audiovisivo in questo rilancio della Cultura europea?

La crescita del nazionalismo si giustifica con le disuguaglianze economiche, sociali, ma anche culturali. Come facciamo a ridurre il gap culturale tra le popolazioni?

LA CULTURA, CAPRO ESPIATORIO DELL’EUROPA

  • Legislazione dell’Unione europea in materia di Cultura

Bisogna riportare la discussione a quello che dice il trattato: “L’Unione sostiene, coordina o integra le azioni dei paesi membri, e mira a portare al primo piano il patrimonio culturale comune dell’Europea.”

E i pilastri nel piano di lavoro per la cultura dell’Unione europea sono:

– Agevolare la sostenibilità del patrimonio culturale;

– Migliorare la coesione e il benessere;

– Creare un ecosistema capace di sostenere gli artisti e professionisti del settore culturale e creativo, e i contenuti europei;

– Favorire la parità di genere;

– Potenziare le relazioni culturali internazionali.

  • La costruzione europea nel dopo guerra

Innanzitutto, l’Europa è stata fuori dall’orizzonte delle politiche culturali dal dopo guerra perché prima ci sono stati il fascismo e il nazismo.

I padri fondatori hanno pensato che fosse molto meglio il pluralismo e non una unificazione di culture. Ancora oggi è profondamente radicata in Europa l’idea che ciò che conta è innanzitutto la diversità culturale.

Se immaginassimo un’unificazione di culture, con ogni probabilità questa avverrebbe nel senso di un ritrovato sovranismo e non di quella ricerca di pluralismo e molteplicità che sono proprie della democrazia in Europa. È a causa di questi retaggi inquietanti se nel DNA dell’Europa di oggi non c’è un soft power europeo.

  • Lingue e formazione degli “Eurocrati”

Uno dei problemi dell’Unione Europea è che parliamo diverse lingue e, a volte, con le stesse parole vogliamo dire cose diverse. Quindi, come si fa a creare un’identità culturale unificata quando viene a mancare un linguaggio comune? Inoltre, a Bruxelles, c’è stato un vero passaggio da un’Unione Europea che era una realtà francofona ad un’Unione Europea che è diventata sempre più anglofona. E questo ha a che vedere con una differenza di certi modi di pensare.

Da sempre la costruzione europea comporta una capacità acrobatica in quanto si è chiamati ad unificare ciò che non è unito dalla partenza, a cominciare dal nome. L’Unione è nata come comunità europea, perché si ispirava al tedesco «Gemeinschaft», che significa “una comunità che si fonda su certe norme e regole”, al contrario di «Gesellschaft» che significa “una società che si basa su certi valori». Quindi, dalla nascita, l’Unione è una società che si fonda su delle regole e dei regolamenti e, a tanti livelli, si opera cercando di attenuare un po’ le differenze culturali, considerando che in questa Unione deve dominare, in ogni luogo, lo Stato di diritto indipendentemente dall’appartenenza culturale. Anche nelle scelte linguistiche, tendono a nascondersi dietro aspetti tecnocratici – quindi neutrali – dei fattori che sono delle differenze politiche. E per lasciare il minimo di spazio alla cultura locale abbiamo lasciato un po’ di liberta nelle immagini che vengono cognate nelle monetine piccole.

Per quanto riguarda la diversità e la cultura delle persone che lavorano a Bruxelles, possiamo notare che tutte hanno una formazione in Giurisprudenza, in Economia. Ma nessuno ha una formazione in Storia, in scienze umanistiche, etc.

  • Politica e cultura

L’eccezione culturale è un pensiero francese, traslato grazie a Delors negli strumenti della politica dell’Unione europea, ed è un’azione francese antiamericana che significa: “difendiamo la cultura francese dall’invasione di Hollywood”. In parte l’eccezione culturale europea riflette questa tematica.

Però, i Paesi europei non vogliono che ci sia una politica europea sovranazionale, e neanche la Francia vuole cedere una parte del suo proprio soft power nazionale ad un’entità superiore. Quindi, il tema è assolutamente politico.

CAMBIAMENTO DI PARADIGMA?

  • Diplomazia culturale

Ad oggi, l’Europa non fa politiche sostanziali e sostanziose sul piano interno, e non le fa neanche come sfida sui suoi valori al livello internazionale.

L’Unione europea avrebbe dovuto lanciare un gigantesco piano di investimento per ricostruire Mosul, Palmira, le città e i luoghi distrutti in Siria e in Iraq da Daesh.

Questo tipo di azione dovrebbe diventare uno strumento di iniziativa politica e diplomatica costante.

  • Le industrie creative

Le industrie creative sono la chiave di volta per rendere l’Europa credibile dal punto di vista del suo spazio nel mondo.

In questo ambito, l’Europa deve investire e regolamentare:

Abbiamo bisogno di fondi per sostenere, per esempio, l’audiovisivo, e dobbiamo avere industrie creative per promuovere il prodotto europeo;

Bisogna regolamentare bene. Recentemente, il Parlamento italiano ha approvato una norma che obbliga Netflix e le atre piattaforme ad avere un certo numero di dipendenti italiani. Questa norma risponde a una logica anche sensata, però è contro le norme europee secondo le quali si devono assumere dipendenti europei, non strettamente italiani. Non si tratta quindi di investire con limiti di questo tipo, ma vuol dire che quando arriverà una web tax questa sarà tutta reinvestita in cultura, in produzione, in diversità culturale.

Solo l’industria creativa è la risposta in termini di lavoro: di lavoro competitivo, di lavoro creativo, di lavoro di soddisfazione. Ogni euro investito nel cinema produce più del doppio in termini di valore aggiunto e l’industria creativa fa lavorare più donne e più giovani che tutti gli altri settori produttivi.

La Cultura deve difendersi come dimensione industriale.

  • Guerrieri della Cultura

Le forze populiste si stanno imponendo o, comunque, hanno imposto, fino a ieri, la loro narrazione. In particolare, vince il sovranismo attraverso la sottolineatura delle identità culturali e la sottolineatura, in gran parte dei casi non fondata, delle differenze.

I punti di riferimento degli Europei sono stati sconvolti. Per ritrovare la loro narrazione, gli Europei dovrebbero chiedersi dove saranno fra 10 anni, quando si pensa alla Cina, al riscaldamento globale, al ruolo dell’intelligenza artificiale, all’evoluzione degli Stati-Uniti sotto Donald Trump, etc.

La Cultura in particolare deve produrre quelle grandi idee che possono portare avanti. Senza chiedere sempre più finanziamenti e soldi, bisogna chiedersi che contributo dare in termini di idee e di cose concrete. Oggi, c’è ancora di più la necessità di avere dei guerriglieri della cultura per proporre delle idee innovative e sostanziose. Bisogna essere positivi: ogni 50 anni c’è il bisogno di un nuovo impulso da parte dei guerrieri della Cultura.

Bisogna mettere la Cultura in ogni settore e darle uno sviluppo orizzontale in modo, in particolare, da compensare l’assenza di un commissario europeo.