Congedi di maternità flessibili, bond per finanziare il welfare, permessi di paternità retribuiti, patti con le aziende affinché le lavoratrici-madri non vengano demansionate, corsi di aggiornamento durante la gravidanza. E poi: misure per favorire l’autonomia dei giovani, investimenti sugli asili nido, e fondi per la conciliazione tra famiglia e lavoro. Per fermare l’apocalisse demografica in Italia non bastano i bonus bebè, ma ci vogliono soldi e nuove strategie. Un pacchetto di misure che il think tank “Volta” diretto da Giuliano Da Empoli, studioso assai vicino al premier Renzi, anticipa in un dettagliato studio dal titolo “Generare futuro. Culture e politiche per tornare ad essere un paese vitale”, curato da Alessandro Rosina e Riccarda Zezza. Dove il cuore del tutto, se vogliamo che le coppie tornino a fare figli, è la considerazione sociale della maternità.

Considerazione che oggi è davvero ai minimi termini, tra licenziamenti, gravidanze scoraggiate, e donne così penalizzate che una su quattro, a due anni dalla nascita del figlio, si ritrova senza lavoro. Alessandro Rosina, demografo, e Riccarda Zezza spiegano nel dettaglio perché a partire dagli anni Ottanta la natalità in Italia è entrata in un crisi senza ritorno. Una “crescita zero” scaturita dalla disoccupazione femminile e dalla conseguente rinuncia ad avere figli. Un taglio netto: un solo reddito, un solo bambino anziché due o tre. E partendo dall’analisi di quella occasione perduta, Rosina e Zezza elencano una serie di misure (creative ed inedite) per provare ad aprire una finestra di speranza contro le culle vuote.

In particolare, il fulcro del ragionamento è che bisogna superare il “muro della maternità”. Immaginare strumenti per cui la gravidanza non venga considerata un peso insostenibile per le aziende, o l’anticamera dell’emarginazione per le donne. Se alle spalle infatti c’è la mancanza di autonomia dei giovani, la precarietà che affligge i trentenni, è l’ostilità del mondo del lavoro nei confronti della gravidanza che scoraggia le donne a fare i figli. E l’impossibilità di poter condividere la gioia (e la fatica) di un neonato con i padri.

Ed è partendo da qui che Riccarda Zezza dopo 15 anni da manager ha fondato il programma “Maternity as a master”, un pacchetto di misure (già sperimentate in diverse aziende) per cambiare i congedi, sia i cinque mesi obbligatori di maternità, sia i mesi facoltativi. Insieme però a formule già rodate in Europa, dice Zezza, «tipo il lancio di Social Impact Bond, ossia titoli che lo Stato si impegna ad utilizzare in misure di welfare». E a paternità retribuite di almeno di due settimane.

Quello che Zezza propone è considerare la maternità un periodo “flessibile”. «Pur salvaguardando il diritto delle donne a scegliere i congedi attuali, si dovrebbe permette di frazionarli, di restare in contatto con l’azienda, ma soprattutto di utilizzare questo periodo per continuare a formarsi, in un’ottica di long life learning anche durante la gravidanza”. Infatti è inutile nasconderlo, suggerisce Zezza: «Ci sono aziende che non riescono a sostenere cinque mesi di assenza di una lavoratrice, ma forse due mesi sì. Ma ci sono anche madri che vorrebbero tornare prima, e ricominciare, magari con part time, o lavoro da casa… ». Nel dettaglio, Zezza divide le venti settimane previste per legge in due parti: una fissa e una più “agile”. Ossia 12 settimane obbligatorie, e le restanti 8 da frazionare con un accordo tra la neo-mamma e l’azienda.

Un progetto che si rifà ad esperienze consolidate nel Nord Europa, ma che in Italia non è privo di rischi. Riformare gli attuali congedi di maternità, diritto tra i pochi ritenuto ancora intoccabile, potrebbe paradossalmente trasformarsi in un nuovo strumento di ricatto. Un rientro dopo tre mesi, potrebbe diventare, magari, una sorta di obbligo non scritto. È questo il pensiero di Loredana Taddei, responsabile delle Politiche di genere della Cgil, che sottolinea quanto «si faccia ricadere tutto il peso della maternità sulle donne e non sulle aziende, invece di puntare a politiche che rafforzino il tasso di occupazione feminile, la parità dei salari e la conciliazione». Il rischio c’è, concorda Zezza, ma non per questo, aggiunge, «dobbiamo sacrificare la libertà di scelta delle donne».

Articolo pubblicato su La Repubblica, il 16 maggio 2016.

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