Se l’Italia s’è risparmiata il fenomeno delle banlieu intrise di odio come a Parigi, o le Molenbeek della separatezza islamista come a Bruxelles, è merito sicuramente dei numeri contenuti dell’immigrazione, ma anche di un «modello italiano» che finora non è stato analizzato e apprezzato nel modo giusto.
Il Belpaese dei mille campanili negli ultimi dieci anni ha assorbito un numero notevole di nuovi arrivi, ma frazionandoli sul territorio. Ciò per un lato è successo spontaneamente, grazie al potere d’attrazione dei distretti produttivi, ma il processo è anche stato guidato dall’alto con il ministero dell’Interno che distribuisce i richiedenti asilo tra centinaia di Comuni. Morale: se l’Italia accoglie 300 mila nuovi residenti l’anno, l’impatto sull’opinione pubblica non è poi così devastante.
«Tutto merito della irriducibile varietà italiana, la quale ha fatto sì che gli stranieri approdati in Italia non si addensassero pesantemente attorno a tappe e mete definite, prefissate e al tempo stesso limitate, ma si disperdessero piuttosto tra le mille mete possibili». Così la pensa il centro studi «Volta», think-tank con basi a Milano e Bruxelles, che si autodefinisce «acceleratore di idee», s’è presentato al mondo all’ultima Leopolda di Renzi e a scorrerne il board – da Giuliano Da Empoli a Marco Carrai, Federico Sarica, Beatrice Trussardi, Matteo Mungari – può essere definito di orientamento renzian-nuovista.
L’immigrazione è al centro del loro ultimo dossier. Lo ha redatto Roberto Volpi, statistico e saggista, con ampia analisi dei dati, e qualche sana polemica. «Anni e anni di report sull’immigrazione in Italia, che ne hanno colto quasi solo le cosiddette criticità, hanno finito per imprimere sul fenomeno proprio quel marchio di negatività, e quasi di impossibilità di poterne venire a capo, che porta a non valorizzare il buono che c’è e che può ancora esser fatto». Il buono è che in Italia non esistono o quasi «enclave» etniche o religiose. Non c’è differenza nelle concentrazioni di immigrati tra città grandi, medie e piccole. «Sono 45 le città italiane con più di 100 mila abitanti: rappresentano il 23,4 per cento della popolazione italiana e ospitano il 32,1 per cento degli stranieri residenti in Italia. Deve far riflettere che nelle grandi città con quasi un quarto della popolazione italiana non ci sia neppure un terzo degli immigrati residenti».
Altro che banlieue, dunque. Ne sono lieti gli apparati di sicurezza. E se anche a Roma, Milano e Torino ci si avvicina alla soglia di un 20% di immigrati, «il carattere diffusivo dell’immigrazione spinge anche nel senso di differenziare le nazionalità degli stranieri internamente a queste aree, evitando quell’effetto enclave, e di estraniazione dal contesto urbano, che cela i maggiori rischi di pericolosità dell’immigrazione nelle aree urbane».
Che fare per il futuro, si domanda il think-tank? «Che l’Italia sia e faccia l’Italia, questo si deve fare». Perchè un’economia diffusa sul territorio funzionerà da equilibratore naturale. E se l’economia ripartisse anche nel Mezzogiorno, meglio anche per la dispersione degli immigrati. Si può poi pensare a formule aggiornate di microcredito per gli «stranieri residenti, specialmente asiatici, che mostrano una particolare vocazione a mettersi in proprio». E per un’Italia che invecchia velocemente è tempo di regolamentare, formare e professionalizzare i badanti, destinati «ad assumere un rilievo e una diffusione crescenti».
Articolo pubblicato su La Stampa, il 1 maggio 2016
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